“Quando inizio una cosa o la faccio bene o non la faccio per niente!”
Questa è una frase che tutti noi abbiamo avuto modo di ascoltare infinite volte e che spesso ripetiamo come un mantra, in prima persona, ogni volta che vogliamo descrivere a qualcuno il nostro approccio nei confronti di nuovi compiti e attività. Il tono che la accompagna è spesso perentorio, tanto da farle assumere le sembianze di una vera e propria legge personale attraverso cui ci definiamo.
Ho deciso di partire da una frase di senso comune così diffusa, per stimolare in primo luogo la riflessione su quanto, ognuno di noi riesca ad accettare l’idea di considerarsi perfezionista.
Mi capita infatti di osservare che spesso le persone non amano attribuirsi questa caratteristica che non manca, al contrario, di provocare al solo pensiero un leggero fastidio.
DA DOVE PUO’ NASCERE QUESTA DIFFICOLTA’?
Un primo motivo può essere ricondotto al fatto che nell’immaginario comune il perfezionismo è spesso associato ad altre caratteristiche personali non sempre positive, penso ad esempio alla rigidità, alla severità di giudizio e all’intransigenza, tratti che suscitano in generale poca simpatia e che risultano socialmente poco desiderabili.
Una seconda ragione, ancora più forte della prima, sta nel fatto che spesso tale tratto della nostra personalità non è consapevole in primis a noi stessi; potremmo infatti attribuirci con facilità altre mille caratteristiche ma nel pensarci come “perfezionisti” la reazione immediata può essere quella di negare che un tale atteggiamento ci appartenga.
E’ invece proprio sul perfezionismo e più in generale sull’eccesso di pretesa che abbiamo nei confronti di noi stessi, che si gioca buona parte della nostra soddisfazione o insoddisfazione e della nostra capacità di godere in pieno della vita e delle nostre esperienze. Più che una dimensione periferica della nostra personalità direi che si tratta di una dimensione assolutamente centrale che vale la pensa di osservare meglio.
La tendenza al perfezionismo può essere considerata una delle forme attraverso cui si esprime una spinta fondamentale propria dell’essere umano, che ci accompagna per l’intera esistenza: quella del superamento dei nostri limiti e della nostra condizione di inferiorità.
Tale spinta, innata e universale, è quella che ci consente di uscire da uno stato di profonda inadeguatezza con la quale, in quanto esseri umani limitati, ci troviamo a fare i conti nell’esatto istante in cui veniamo al mondo.
Vi propongo di pensare alla condizione di un neonato, che in uno stato di totale impossibilità di provvedere a sé stesso, riesce attraverso il pianto ad attivare gli adulti che ha intorno a sé affinché si prendano cura di lui, lo nutrano e lo coccolino, permettendogli così di calmarsi e di uscire da uno stato di estrema angoscia. Il semplice pianto di un neonato rappresenta la massima espressione della spinta vitale al superamento di una condizione fortemente spiacevole, un potente segnale che ha consentito a ciascuno di noi non solo di risolvere una condizione di assoluta inferiorità ma ancor di più di garantirci la sopravvivenza attraverso le cure di chi ci ha cresciuti.
Tutto ciò che il bambino interiorizza e apprende nei suoi primi anni di vita, in termini di atteggiamenti, comportamenti, modo di relazionarsi con il mondo che lo circonda, (in primis con le figure significative della sua vita, genitori, fratelli) ha alla base lo scopo di garantire la propria sopravvivenza attraverso il superamento di limiti e difficoltà.
Non mi dilungo in altri esempi, ciò che però mi preme trasmettere è che se c’è una spinta vitale, presente in noi da sempre e che non ci abbandona mai, è proprio quella che ci permette di stare il meno possibile in una condizione di inadeguatezza in modo da non entrare in contatto con sentimenti profondamente spiacevoli e angoscianti già sperimentati nel nostro passato.
QUALE NESSO C’E’ QUINDI TRA SENSO DI INFERIORITA’, CONDIZIONE UMANA E UNIVERSALE, E PERFEZIONISMO?
In questa chiave possiamo intendere il perfezionismo come una spinta, portata all’eccesso, della tendenza innata al superamento dei limiti e dell’inferiorità.
In altri termini il perfezionismo, che possiamo tradurre come “desiderio di essere il massimo”, altro non è che una risposta estrema ad un senso di inadeguatezza vissuto e percepito come estremo e fortemente minaccioso, nei nostri primissimi anni di vita, anche se non ne abbiamo memoria.
L’eccesso di ambizione, l’estrema competitività, la logica di costante confronto con gli altri, sono altri atteggiamenti che possono essere letti con la stessa chiave interpretativa, ossia quella di una lotta costante messa in atto con noi stessi affinché il nostro senso di inadeguatezza possa non essere percepito e non torni a galla, dandoci così l’illusione di essere più degli altri e profondamente diversi da ciò che intimamente abbiamo timore di essere.
IL FINE ULTIMO DEL PERFEZIONISMO
Il perfezionismo nasce quindi da una spinta vitale di cui tutti siamo dotati; potrebbe in tal senso assumere funzioni positive e fungere da stimolo per un costante miglioramento della nostra condizione. In realtà, se inteso come eccessiva pretesa nei confronti di sé stessi, ecco che il perfezionismo assume la forma di un potente autoinganno .
E’ utile tornare a questo punto alla frase di apertura dell’articolo:
“Quando faccio una cosa o la faccio bene o non la faccio per niente”, mostra con estrema semplicità la dinamica del perfezionismo e il suo fine ultimo.
In primo luogo spesso, dietro il “fare bene qualcosa” può nascondersi INCONSAPEVOLMENTE il significato soggettivo del “lo faccio al massimo livello di perfezione possibile”, livello di per sé irraggiungibile, proprio per la sua estrema esigenza di non ammettere sbagli o errori.
La conclusione di rinuncia della seconda parte della frase, mette in luce invece il vero scopo del perfezionismo che è quello di spingerci a non fare, laddove non siamo già sicuri di uscire vittoriosi da questa continua battaglia privata, messa in atto con noi stessi. Il fare e l’agire ha in sé il rischio della non riuscita e il grande limite del perfezionismo, sta proprio nella motivazione inconscia che lo accompagna, quella di evitare di scontrarsi con la realtà del non essere capaci e con il senso di inadeguatezza che ne potrebbe derivare.
L’ACCETTAZIONE DEI PROPRI LIMITI E’ IL PIENO GODIMENTO
“Accettare i propri limiti”, facile a dirsi, molto più difficile a realizzarsi.
La verità è che a nessuno piace fare i conti con il senso della propria limitatezza e delle proprie incapacità ma il raggiungimento di una condizione di accettazione profonda di sè e di amore per come si é realmente, rappresenta il più importante traguardo che nella vita possiamo sperare di raggiungere.
L’illusione di essere perfetti e invincibili può donarci un potentissimo senso di piacere, il più delle volte effimero e rapido, in più mantenere tale illusione può condurci ad uno spreco di energia abnorme che rischia di farci perdere il contatto con i veri piaceri della vita. La piena accettazione per come si è, nel bene e nel male e lo scoprirsi imperfetti, porta a godere in pieno di tutte le nostre esperienze, è un godimento che nutre da dentro e che non ha bisogno di essere costantemente rinnovato perché poggia su ciò che siamo realmente.
Il percorso non è sempre facile, le resistenze all’accettazione di un’ immagine di normalità sono estremamente forti, ma riuscire a piacersi nella propria imperfezione ha l’enorme potere di liberarci o quantomeno di ridurre timori, paure e ansie che ingabbiano spesso la voglia di rischiare e di scegliere in piena libertà ciò che davvero desideriamo.
L’immagine che ho scelto racchiude il messaggio di coraggio che spero sia arrivato attraverso questo contributo.
Ai prossimi articoli.
Dott.ssa Manuela Di Luca
* Per la stesura dell’articolo non ho consultato testi specifici. La teoria che ho esposto è a grandi linee una riformulazione personale della Teoria Adleriana sul senso di inferiorità e le sue compensazioni, così come l’ho interiorizzata nella mia formazione e attraverso la mia analisi personale.
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